L’inattesa bellezza di un corpo trafitto

A questa mostra sono innanzitutto davvero grata, perché mi ha dimostrato che sono ancora capace di provare emozioni. Una sorpresa, non saprei come definirla in altro modo. Conoscevo già, e mi era piaciuto subito, il Castello di Miradolo, nuova e promettente sede di eventi d’arte tutt’altro che scontati, che deve la sua rinascita all’energia vitale di una signora che risponde al nome di Maria Luisa Cosso. Qui avevo già visitato la mostra sulle Donne del Risorgimento, che mi aveva colpito per il suo taglio intelligente e mai banale. Ma San Sebastiano è ancora un’altra cosa. Lo definirei un percorso di educazione alla bellezza. Del corpo, certo, come è ovvio che sia. Un soggetto che è stato scelto dai suoi autori, come ha suggerito benissimo il curatore (e ideatore del tutto) Vittorio Sgarbi, non certo per celebrare la santità di un martire.  Questo Sebastiano è Adone che prefigura Cristo, ma è soprattutto “l’uomo del Rinascimento con le sue passioni e le sue aspettative sul mondo e sul futuro”. Ma non basta radunare un gruppo di capolavori, sia pure scelti con cura e attenzione, perché il miracolo si compia. La meraviglia di questa mostra è che qui “ogni cosa è illuminata”. E…

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Il mondo filtrato dall’ “invenzione” dell’arte

Ce l’ho anch’io un ricordo di Casorati, anche se non proprio, come si dice, di prima mano. Una mattina di scuola, credo fossi in prima liceo, il mio professore di storia dell’arte, il pittore Riccardo Chicco, che di Casorati era stato allievo, ci raccontò di come aveva imparato a “fare” il nero. Tante righine di colori diversi tracciate una vicina all’altra e poi il dito del Maestro che ci passava sopra, confondendole. Ne era uscito un nero brillante e vivido, naturale e luminoso. E tutto nero, anzi nero su nero, è il primo quadro della mostra, quello che fece decidere Casorati di “fare il pittore”, il Ritratto della sorella Elvira che per me rimane uno dei più belli, e rivelatori. Non tanto perché sembra un po’ diverso dagli altri, più figurativo, meno geometrico e austero nonostante l’apparente non-colore, ma perché mi pare che qui l’autore dica anche qualcosa di sé. Il suo divertito amore per la pittura, per esempio, che può essere anche un serissimo gioco: la sorella trasformata in sdegnosa nobildonna, con tanto di stemma e nome in scrittura gotica. E già la voglia di raccontare il mondo e la vita non come appare, ma come è davvero, e…

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Questa volta i tre gufi… hanno portato bene!

Malanghero, frazione di San Maurizio Canavese in provincia di Torino, è un paesino piccolissimo, che si sviluppa lungo via Aldo Devietti Goggia – non sono riuscita a sapere chi fosse, attendo notizie – che praticamente fiancheggia la pista di atterraggio   dell’aeroporto di Caselle. Rumori di jet e quiete dei campi si alternano con accettabile regolarità, almeno nelle ore del giorno di cui sono stata testimone, e l’atmosfera è quella di un tranquillo luogo di campagna, dove questa piacevole “taverna” sembra perfettamente a suo agio. Sarà perché di questi tempi la trattoria “fa tendenza”, sarà perché la cucina è davvero di quelle che invogliano, ma qui – alla faccia della crisi, ma questo è un altro discorso – bisogna assolutamente prenotare se si vuol essere sicuri di trovare un posto. Il menu è raccontato a voce e oscilla tra la tradizione canavesana dell’abbondante tagliere di salami  e del salignun, sempre presenti tra gli antipasti, ai piatti tipici di stagione della tradizione italiana. Oggi a pranzo, per esempio, ho assaggiato ottime tagliatelle, rigorosamente fatte in casa, con i  funghi porcini (e che erano freschi si sentiva), un abbondante piatto di funghi fritti (a me piacciono) nonché un davvero, ma davvero autentico bonet.…

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Il sapore accattivante della mela blu

Dice spesso Davide Scabin – lo ha ripetuto anche a me, la sera che sono stata a cena da lui – che noi italiani “non siamo un popolo di ristoratori, ma di trattori”. Per questo il Blupum, la sua nuova creatura, nata da poco sulle sponde della Dora a Ivrea, l’ha chiamata Trattoria. E adesso che il Blupum raddoppia, e al piano superiore diventa Drogheria, richiamo anche questo al buon (?) tempo andato, quale commento dobbiamo aspettarci? Bisogna andarglielo a chiedere, al cuoco Scabin – ormai nessuno dei “grandi” ama essere chiamato chef, Gualtiero Marchesi docet – se mai si riesce a bloccarlo, tra un volo transoceanico e l’altro. Perché l’altra sua creatura del momento, di cui però, come lui stesso ci tiene a precisare, ha curato “soltanto la carta dei piatti”, è il newyorkese Mulino a Vino, di cui molto si sussurra ma ancora poco si sa davvero. Comunque i suoi piatti “50% tradizione piemontese e 50% italiana” a me sono piaciuti, e molto. E senza aver proprio niente da ridire – io che sono emiliana di origine – nemmeno sul gnocco fritto che accompagnava i salumi (ottimi) serviti tra gli antipasti, come si usa anche da noi. Qualche riserva, ma solo…

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